Sono esistite donne che per amore diventarono Brigantesse. Furono mogli, madri e figlie che in nome della vita e della libertà scelsero il sogno della resistenza. La loro storia ancora oggi è immersa nell’alone del mito e della leggenda ma il loro nome è destinato a durare per sempre. Le brigantesse d'Irpinia sono le donne che, armi in pugno, resistettero – a torto o a ragione – all’invasione piemontese del territorio irpino nel periodo post-unitario (1860-1865) ricoprendo un ruolo tutt’altro che marginale. Donne che seguirono dappertutto il loro uomo, anche quando si trattò di partecipare a marce estenuanti, nottate all’addiaccio, assalti e scontri a fuoco. Vestite con abbigliamento tipicamente maschile, pantaloni, camicia, gilet e cappellaccio, con al cinturone pistola e pugnale, incutevano timore agli stessi briganti. A volte esse erano molto più risolute e determinate dei loro compagni, con una tempra che destava, nello stesso tempo, ammirazione e spavento. Nella drammatica storia del brigantaggio post-unitario si incontrano parecchie di queste donne che i Piemontesi, con termine sprezzante e dispregiativo, chiamavano ‘drude’ ossia prostituite, concubine, femmine di malaffare e da bordello, additate al pubblico ludibrio e alla più feroce esecrazione ossia femmine di malaffare. Molte di esse sono cadute a fianco del loro uomo; altre hanno affrontato un lungo periodo di carcere duro, senza mai rinnegare la scelta, fatta, il più delle volte, solo per amore. Una pagina triste quanto poco conosciuta che racconta di donne disperate che, mettendo da parte il ruolo tipico della rassegnazione, scelsero di seguire i loro uomini sulla montagna, svolgendo un ruolo attivo nella dilagante rivolta contadina. L’immagine che ci è giunta è quella di una donna dalla femminilità nascosta, molto spesso repressa, forti e audaci come gli stessi uomini che sostenevano in battaglia. Donna dalla doppia faccia, amanti fedeli, ma anche spietata giustiziera.

Sebbene molte brigantesse abbiano agito senza lasciare un nome alla storia, alcune di loro si distinsero nel territorio irpino lasciando tracce tali da restituire un ritratto piu’ realistico e veritiero di quello ricavabile solo dalle immagini usate dalla propaganda dell’epoca che le ritraeva in pose stereotipate o macabre dopo la cattura o la morte. Le brigantesse irpine agirono in un periodo di grandi tensioni nel Sud Italia ricoprendo un ruolo attivo e non marginale in una vicenda storica considerata dal potere centrale un fenomeno criminale che per molti meridionali rappresentò una forma di ribellione e protesta nei confronti dell’usurpatore.

Mariannina: “la pasionaria di Monteforte”

La vicenda di Mariannina Della Bella, detta Zimunella, è un raro intreccio di documenti processuali e leggenda popolare. La sua storia risuona ancora oggi nei racconti locali e negli spettacoli come “Ruggiti di libertà. Amore e morte a lu tiempo de li briganti”, che parlano di una donna che non fu solo amante, ma figura carismatica, con capacità di inganno, dominio e seduzione tanto sulla banda brigantesca quanto sulle autorità civili. Nata intorno al 1847 a Monteforte Irpino: la sua storia s’intreccia con quella del brigante Antonio Manfra, del quale – a 19 anni e perciò ancora minorenne per la legge dell’epoca – divenne l’amante. Mariannina visse sospesa tra due mondi: l’amore totalmente dedito e disperato verso Manfra e l’attrazione ambigua del potere locale incarnato da Don Giovanni Amodeo sindaco di Monteforte, che era segretamente innamorato di lei, e che fu indicato proprio dalla brigantessa come il padre del figlio che portava in grembo ai tempi del suo ritorno in paese dopo l’esperienza del confino a cui fu condannata nel 1864. La bellezza di Mariannina, celebrata con termini carichi di moralismo dell’epoca, confuse molti: gendarmi, ufficiali, rappresentanti dell’ordine non ricambiati da lei come persino l’amministratore del paese stesso. Gli omicidi ordinati da lei e dalla madre spesso nulla avevano a che fare con la ribellione ai sabaudi. Si trattava di poderi desiderati o di vendette per delazioni fatte all’autorità. Ogni volta che riteneva di aver ricevuto un torto, Mariannina faceva in modo di far vedere al malcapitato di turno un anello d’argento donatole da Antonio su cui erano raffigurati un teschio e due cuori: quello era il segnale che ben presto il Manfra avrebbe riparato al torto con le “cattive maniere”. Mariannina pretendeva ed Antonio eseguiva: lei era il perno su cui ruotava il brigantaggio montefortese. Mariannina non svanisce nei libri d’archivio: rimane simbolo di una donna che osò sfidare ruoli e stereotipi. Comandò, amò, ingannò chi poteva. E forse, per questo, scontò più della colpa che le fu imputata, rappresentando una femminilità che non si piegò né all’ordine né all’omertà.

FILOMENA PENNACCHIO: la Regina delle Selve

 All’anagrafe De Marco, ma chiamata “pennacchio” per il vezzo del cappellino piumato che indossava, fu tra le più note donne che aderirono al brigantaggio postunitario. Nacque a San Sossio Baronia nell'allora provincia di Principato Ultra del Regno delle Due Sicilie. Figlia di un macellaio, sin da piccola dovette lavorare come sguattera presso alcuni notabili del suo paese, per poter incrementare i miseri guadagni della sua famiglia. Rimase orfana in giovane età, poiché la madre morì quando lei aveva 4 anni e il padre nel 1853 quando lei ne aveva 12. Contadina e analfabeta, nel 1862, mentre era a servizio nella masseria di Nicola Misso, conosce Giuseppe Schiavone, già famoso brigante di Sant’Agata di Puglia, che la cattura e l’arruola nella sua banda. Tra i due nasce un profondo amore. La brigantessa Pennacchio si distinse subito per le sue capacità: donna dal temperamento deciso, priva di scrupoli, prese parte a numerose scorribande e imboscate, quasi sempre accanto al suo compagno Schiavone. Era molto ammirata e rispettata dai suoi commilitoni, per il suo fascino e la sua freddezza. All'età di circa 21 anni mise a segno il suo primo colpo, in un podere di contrada Migliano, nel comune di Trevico , contro una donna possidente chiamata Lucia Cataldo, la quale non aveva consegnato a Schiavone denaro e oggetti d'oro che il brigante le aveva ordinato di cedere. Come atto intimidatorio, la Pennacchio, davanti ai suoi occhi, sgozzò il bue di proprietà della donna e se ne andò. Il 4 luglio 1863, in località Sferracavallo, sulla consolare che da Napoli che conduce a Campobasso, si rese partecipe dell'uccisione di 10 soldati italiani della 1ª Compagnia del 45º fanteria; assieme a lei vi erano Schiavone, Michele Caruso, Teodoro Ricciardelli e altri 60 uomini circa. Si narra che in una incursione sull'abitato di San Sossio Baronia Filomena recise le quattro teste di angeli scolpiti in altorilievo agli angoli del basamento di una croce di pietra del 1611.La relazione tra la Pennacchio e Schiavone non fu accettata da Rosa Giuliani, che da Schiavone era stata tradita per Filomena: gelosa, la Giuliani rivelò il nascondiglio dove si trovavano Schiavone e alcuni suoi uomini, che furono catturati dalle truppe sabaude e portati a Melfi. Filomena, in quel momento incinta, non era presente alla cattura del suo uomo: anche lei si trovava a Melfi, ma nascosta in casa di una levatrice. Prima di essere giustiziato, Schiavone chiese di poter vedere Filomena per l'ultima volta. La Pennacchio decise di incontrarlo, lui si inginocchiò e la baciò calorosamente per l'ultima volta, chiedendole perdono. Rimasta sola, gravida e distrutta per la perdita del compagno, la brigantessa si arrese e collaborò con le autorità, contribuendo all'arresto di Agostino Sacchitiello di Bisaccia e la sua banda, le brigantesse (nonché sue amiche) Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Filomena, dopo il parto di un maschio registrato presso il comune di Melfi come trovatello il 12 febbraio 1865 a cui il sindaco darà il cognome di Prigioniero, fu arrestata all'età di 23 anni. Al carcere di Potenza vennero scattate le due fotografie che la immortalano. In una è da sola, nell'altra è costretta a posare insieme, per la soddisfazione del nemico vincitore, con Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito, arrestate proprio in seguito alle delazioni di Filomena. Condotta davanti al tribunale di guerra di Avellino nel giugno 1865, Filomena fu condannata a 20 anni di lavori forzati presso il carcere duro delle Fenestrelle, che vennero poi ridotti per buona condotta a 9 ed infine a 7 venendo accolta dalle suore dell'Opera Pia Barolo di Torino dove si istruisce. Filomena dopo aver scontato la sua condanna, uscì di prigione e sposò il 10 aprile 1883 un facoltoso uomo di Torino, Antonio Maria Valperga, più giovane di lei. Dedica la sua vita, priva di figli, all’accoglienza ed aiuto agli orfani, ai carcerati, ai poveri. Per queste opere meritevoli il parroco della parrocchia di Nostra Signora delle Grazie, nota come chiesa della Crocetta di Torino, oltre a somministrarle il sacramento della penitenza, fece sì che a Filomena Papa Benedetto XV impartisse la benedizione papale. Morì il 17 febbraio 1915.

ANTONIA SCARANO

Solofra, con la sua valle aperta, fu interessata solo marginalmente dal brigantaggio, che ebbero come centro le falde del Terminio. Nonostante ciò emerge un suo coinvolgimento agli eventi, a cominciare dal 1861 quando, nell’estate di quell’anno, fu contestata l’elezione del nuovo sindaco da parte della popolazione. Fu durante questi episodi che emerse la figura di Antonia Scarano che era la donna del brigante Ferdinando Pica alleato con il Ferrigno, entrambi appartenenti alla compagnia di Alfonso Carbone. La storia di questo legame si colora di gelosia poiché la donna del Pica, una certa De Martino, che era stata ripudiata per la Scarano, tradì dando notizie della banda ai carabinieri di Montella. In seguito a questa delazione, che evidenzia il dramma delle donne dei briganti, la banda si divise: al Pica andò il territorio dell’avellinese, al Ferrigno il salernitano. La banda di Alfonso Carbone, attiva tra le provincie di Salerno e Avellino, si arrese il 5 settembre 1869 come si evince dalla cronaca dell’epoca: “MONTELLA, Brigantaggio: La comitiva Carbone, forte di 12 uomini, tra cui la brigantessa Antonia Scarano, si è presentata questa mattina, con a capo lo stesso Carbone, nella chiesa parrocchiale di Montella dove ha deposto le armi. Si recava quindi dal signor generale Pallavicini che con quest’altro fatto distruggeva del tutto il brigantaggio nella provincia di Avellino.”

GIUSEPPINA VITALE

Giuseppina Vitale, bottegaia, nacque il 29 maggio 1841 a Bisaccia, si diede al brigantaggio perché barattata dal padre per un cavallo, in quegli anni infatti e in determinati contesti sociali, un animale domestico come poteva essere un cavallo o un maiale valeva anche piu’ di una donna in quanto contribuiva all’economia domestica. È diventata famosa per la foto che la ritrae insieme a Maria Giovanna Tito e a Filomena Pennacchio nel carcere di Melfi.
Era la donna di Agostino Sacchitiello: costui dovette amarla veramente, dal momento che in un interrogatorio reso dopo la cattura la definì prima “mia amata promessa sposa” e poi, ancor più teneramente, “la mia Beppina”.
La banda di Sacchitiello, composta da 160 briganti e sessanta cavalli, dominava il territorio dell’alta Irpinia e di parte della Basilicata. Giuseppina Vitale fu a fianco di Sacchitiello nello scontro con il 20° battaglione Bersaglieri alla masseria Monterosso fra Lacedonia e Carbonara, ed in quello con gli Ussari di Piacenza dell’8 maggio 1863 presso Calitri. Dalla deposizione resa da Giuseppina Vitale in data 1 marzo 1865 risulta che essa fu ospitata per molto tempo da alcune famiglie monteverdesi sia in paese che nei pagliai fuori paese.

 

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